La ‘Psicoterapia Breve Strategica’ di P.Watzlawick e G.Nardone

 

Escher, “Swans”

La psicoterapia breve strategica non si basa su di una teoria della natura umana che consenta la formalizzazione dei concetti di normalità e patologia, ma si occupa della funzionalità del comportamento di fronte ai problemi dell’esistenza e della convivenza, nella convinzione che non è possibile estrapolare un soggetto dal suo contesto interattivo. L’attenzione è quindi sulle relazioni interdipendenti che ognuno vive con se stesso, con gli altri e con il mondo, così da adattare le strategie psicoterapiche alle situazioni e non le situazioni ad una teoria.

 

Il passaggio dalla ricerca delle cause del problema allo studio del funzionamento patologico cambia il modo di intendere il comportamento disfunzionale, che spesso “è la reazione migliore che il soggetto crede di poter esercitare su una determinata situazione” (Nardone, Watzlawick, 1990). Il sistema percettivo-reattivo di un soggetto problematico tende infatti ad irrigidirsi ed a perseverare nell’utilizzo di una o più strategie, che funzionano come veri e propri amplificatori del problema stesso, e sono proprio queste tentate soluzioni messe in atto dagli stessi portatori del disturbo che mantengono o aggravano la condizione patologica. I problemi che si vogliono risolvere non vengono quindi visti come correlati alle proprietà degli oggetti o delle situazioni – cioè alla cosiddetta realtà di primo ordine – bensì al significato, al senso ed al  valore che vengono attribuiti a tali oggetti e situazioni – cioè alla loro realtà di secondo ordine. Sulla base di tali principi, si è venuta strutturando una specifica  metodologia applicativa, che tiene conto della complessità delle interazioni umane.

Il paradigma-chiave dell’intervento psicoterapeutico è che “il terapeuta in quanto outsider è in grado di provocare quello che il sistema stesso non è in grado di produrre: un cambiamento delle proprie regole” (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1967). Le specifiche manovre messe in atto, infatti, inducono cambiamenti nelle modalità con le quali le persone hanno costruito le proprie realtà disfunzionali, modificando l’organizzazione relazionale, cognitiva ed emotiva da cui origina il disturbo.

 

Secondo questa teoria, per cambiare una situazione problematica, prima si deve cambiare l’agire e di conseguenza il pensare, in quanto l’insight  è l’effetto del cambiamento stesso e non la sua causa. Rendere il paziente consapevole nei confronti del disturbo e delle cause del problema fa aumentare, infatti, la resistenza al cambiamento, in quanto “ogni sistema, per il principio dell’omeostasi, resiste al suo cambiamento. Il renderlo consapevole del cambiamento, prima che questo avvenga, significa mettere in guardia il sistema” (Nardone, Watzlawick, 1990). La riuscita dell’intervento dipende anche da un altro fattore cruciale: il tempo, che deve essere necessariamente breve, perché “abbastanza presto anche il nuovo sistema (quello che include il terapeuta) si consolida a un punto tale che il terapeuta è preso in esso in modo quasi inestricabile e da quel momento in poi ha molte meno possibilità di produrre un cambiamento di quante ne avesse all’inizio del trattamento” (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1967).

 

Partendo da siffatte premesse epistemologiche e metodologiche, sono stati messi a punto modelli di trattamento specifico per varie patologie, nei quali sono previste sequenze programmate di intervento, che comunque vanno sempre adattate allo specifico caso e perciò richiedono  una sintesi personale tra tecnica, inventiva e creatività.

 

 

Bibliografia:

  • Nardone G., Verbitz T., Milanese R., “Le prigioni del cibo”, Ponte alle Grazie, Milano 1999
  • Nardone G., Watzlawick P., “L’arte del cambiamento”, Ponte alle Grazie, Milano 1990
  • Thom R., “Parabole e catastrofi”, Il Saggiatore, Milano 1990
  • Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson D.D.(1967), “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, Roma 1971
  • Watzlawick P., Weakland J.H., FischR., “Change”, Astrolabio, Roma 1974